Se tutto va bene, ci si gioca pure quelli.
Svendere i gioielli di famiglia: ecco quale rischio correranno quei Comuni che vedranno nella dismissione del proprio patrimonio il pozzo di San Patrizio cui attingere per far quadrare i conti e risolvere i problemi di bilancio che turbano i tranquilli sonni di Sindaci ed Assessori.
Un decreto legge approvato dal Governo Berlusconi lo scorso anno (il n.112 del 25.6.2008, convertito nella legge n.133 del 6.8.2008) consente, infatti, a comuni, regioni e province (formalmente) "per procedere al riordino, gestione e valorizzazione del proprio patrimonio immobiliare " - (sostanzialmente) per far cassa - di redigere un apposito elenco nel quale inserire "i singoli beni immobili ricadenti nel territorio di competenza, non strumentali rispetto alle proprie funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione, ovvero di dismissione" .
E' il c.d. piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari da allegare al bilancio di previsione.
L'inserimento degli immobili nel piano ne determina - così dispone la legge - la conseguente classificazione come patrimonio disponibile.
Vale a dire, il bene di proprietà comunale è pronto per essere venduto.
Come può ben intuirsi, si tratta di una norma pericolosissima, di cui i Comuni - spinti dal famelico bisogno di reperire sempre più quattrini -potrebbero fare un uso indiscriminato, con il rischio di spogliarsi, a poco a poco, della proprietà di tutti quei beni dei quali ogni amministrazione deve, necessariamente, disporre per poter soddisfare i bisogni dei propri cittadini (aree destinate a spazi pubblici, al verde, sale per incontri culturali, sedi di associazioni, case per i meno abbienti).
E qualche (brutta) anticipazione dei possibili -distorti- utilizzi della norma, la abbiamo pure già avuta.
Come ricordavo qualche tempo fa, la Giunta di Monza capeggiata dal leghista Marco Mariani, e dal suo vice-sindaco Dario Allevi (ora presidente della Provincia di Monza e Brianza) ha deciso di vendere -dopo averli debitamente resi edificabili - oltre 76.000 mq di aree destinate a verde.
E' chiaro, a questo punto, il difficile compito che graverà sui Sindaci.
I Primi cittadini dovranno, infatti, redigere il piano in modo oculato,e con lungimiranza, resistendo alla tentazione di alienare il proprio patrimonio per fare cassa.
Una vendita indiscriminata, ad esempio, degli alloggi comunali rischierebbe di colpire le fasce più deboli e povere della popolazione, con pesanti ripercussioni anche nel tessuto sociale, come ben evidenzia questo interessante editoriale pubblicato qualche giorno fa da Edoardo Salzano.
" Sembra che il governo, i costruttori e le cooperative vogliano risolve ere il problema della casa, oltre che con l’aumento della cubatura degli edifici esistenti, anche con la cessione ai privati delle aree e degli edifici che appartengono al demanio.
Non so se tutti sanno che cos’è il demanio pubblico.
È qualcosa che appartiene a tutti noi cittadini italiani.
È stato formato con le tasse che noi, e i nostri padri e nonni, abbiamo pagato allo Stato.
Una parte è costituita dagli immobili (terreno ed edifici) che appartenevano alla proprietà feudale degli stati preunitari, e quindi costituisce il patrimonio pubblico di base della nostra nazione.
Il resto l’abbiamo proprio pagato noi, direttamente, con le nostre tasse.
Vi sembra giusto che questo patrimonio di tutti sia privatizzato? A me no.
Così come non mi sembra giusto che sia venduto a privati il patrimonio degli Istituti delle case popolari, anziché essere dato in affitto alle famiglie più bisognose.
La disponibilità di un patrimonio edilizio pubblico è essenziale.
Ogni paese civile ne dispone in percentuale molto più elevate che in Italia: 34 % del totale delle abitazioni in Olanda, 20 % in Svezia, 15 % in Francia, meno del 5 % in Italia.
Il dato è ancora più preoccupante in quanto in Italia è molto più bassa che negli altri paesi europei la percentuale di alloggi in affitto.
Non riescono a trovare un’abitazione in affitto a prezzi decenti non solo quanti sono poveri (e i poveri, si sa, in Italia stanno aumentando), ma anche chi ha un normale reddito di lavoro e deve spostarsi dalla casa dei suoi genitori per trovare un’occupazione.
Ridurre il patrimonio abitativo pubblico, investire risorse per aumentare il peso delle abitazioni in proprietà rispetto a quelle in affitto, è una politica che accresce le diseguaglianze sociali e riduce la libertà di cercare occupazione là dove c’è.
Obbliga chi ha un po’ di risparmi a investire nell’acquisto di una casa in proprietà, distraendo così il risparmio dagli impieghi produttivi e dai consumi, quindi indebolisce il sistema economico.
È una politica reazionaria nel vero senso del termine: perché porta il nostro paese all’indietro nel tempo.
Del resto, come molti hanno osservato anche il “piano casa” di cui si sta dibattendo è un ritorno al passato.
Affidare la ripresa economica allo sviluppo dell’attività edilizia e, per ottenere questo risultato, “liberare” i costruttori e i proprietari immobiliari dalla regole dei piani urbanistici, è proprio la strada che percorsero (ma con ben altre motivazioni e in una realtà radicalmente diversa) i governi italiani degli anni Cinquanta.
Il diffondersi della cementificazione, la devastazione del paesaggio e delle nostre città compiuti ignorando la pianificazione urbanistica provocarono allora guasti di cui ci si rese conto, tentando di correre ai ripari.
Oggi si è ripresa quella strada.
Curiosamente però, come ha osservato Salvatore Settis su la Repubblica del 1 settembre, il decreto del governo non è mai arrivato, mentre le regioni si sono tutte prodigate per attuarlo.
Ciascuna a suo modo, ma tutte, destra o sinistra, nella stessa logica: bisogna privilegiare i proprietari di case rispetto a quelli che una casa non l’hanno, e non possono né comprarla né prenderla in affitto ai prezzi del mercato.
I voti dei primi sono di più, e l’obiettivo principale è prendere più voti e consolidare il potere, indipendentemente dal merito dei problemi e delle soluzioni.
Questa sembra essere diventata una regola bipartisan: ragione di più per esserne preoccupati.
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